Condividiamo con Voi un articolo a tema che ci è parso molto bello, apparso sul Corriere della Sera di ieri 18 marzo, a firma di Massimo Gramellini:
LA FESTA DEL FIGLIO
Mi è stato chiesto un pensiero sulla Festa del Papà, immagino in veste di fresco ma attempato esponente della categoria, eppure non saprei dirvi per quale motivo mio figlio dovrebbe festeggiare proprio me. Perché parlo sempre di lui con tutti, magnificando ogni suo gesto come se fosse una tappa decisiva nella storia dell’umanità, dopo avere passato una vita a prendere in giro chiunque lo facesse? O perché ogni mattina, pur di convincerlo a prepararsi per l’asilo, lo sfido a chi finisce prima di vestirsi e lo lascio vincere sempre, però fingendo ogni volta di impegnarmi allo spasimo? Oppure perché ogni sera, quando lo metto a letto, gli improvviso una storia ambientata sul Pianeta delle Caccole, il suo preferito, in versione lunga o corta, a seconda che abbia poco o tanto sonno? O magari perché la notte entro in punta di piedi nella sua stanza, mi siedo sul pavimento e lo guardo dormire, talvolta anche russare, e in quei momenti mi sento talmente in simbiosi con lui che non ho più paura della morte e nemmeno della vita?
Più ci penso, più mi convinco che non è mio figlio a dovere fare la festa a me, ma io a a lui. E allora buona festa, Tommaso, per il tuo carattere serio e preciso, così diverso dal mio. Aveva ragione James Hillman: oltre che del Dna e dell’ambiente in cui cresce, un figlio è il prodotto del suo «daimon», il suo genio unico e irriducibile, spesso lontanissimo da quello dei genitori. E il compito di un padre (e di una madre) è accettare che il figlio sia altra cosa da sé, senza giudicarlo né imprestargli i propri sogni e le proprie frustrazioni.
Non di meno: buona festa, Tommaso, perché una delle prime frasi che pronunciasti all’alba dei tuoi due anni, sicuramente per compiacermi, fu «Fozza Too». Intendiamoci, l’ho appena detto: lungi da me l’idea di volerti trasmettere le mie passioni, ma se proprio potessi lasciartene una in eredità, per un bambino come te, già così sicuro di sé, diventare tifoso di una squadra di calcio romanticamente votata alla sofferenza potrebbe rivelarsi un utile addestramento esistenziale.
Buona Festa del Figlio perché mi hai spalancato le porte dell’infinito, insegnandomi l’amore che nobilita: quello senza condizioni. Come tutti (ma forse un po’ di più, essendo un orfano precoce) ho passato la vita a pretendere di essere amato. A pensare, cioè, che l’amore consistesse nel sentirsi al centro dell’interesse altrui. Eppure, quando questo succedeva, non mi ritenevo mai completamente soddisfatto. Finché, già adulto, mi sono imbattuto in un libriccino antico, il Simposio di Platone. E per bocca di Socrate (che però diceva di averlo appreso da una donna, una sacerdotessa dietro cui pare si celasse Aspasia, l’etera più famosa di Atene) ho scoperto che l’amore «è solamente di chi prova amore, non di chi lo riceve», come canta Madame.
Quando ami senza condizioni, i tuoi pensieri — chiunque ne sia l’oggetto — sono naturalmente rivolti al bene. Vale purtroppo anche per gli amori sbagliati o, come si dice adesso, «tossici». Vale a maggior ragione per un figlio. Perciò buona festa, Tommaso, perché con te imparo ad amare ogni minuto, non solo senza pretendere nulla in cambio, ma senza neanche aspettarmelo. Da te, per il futuro, non mi aspetto che ingratitudine, egoismo, astuzia, stizza, conflitto, scarsa voglia di comunicare. E so benissimo che tu da me, qui e ora, vuoi due cose soltanto: che ti pulisca la bocca e il sedere quando serve, ma soprattutto che ti guardi. «Guardami, papà» è la frase che mi rivolgi più spesso. E io faccio con gioia e diligenza il mio sporco lavoro di padre: guardarti. Mentre ti arrampichi su una torre di cuscini, pronto ad afferrarti al volo se cadi, ma senza che tu te ne accorga, altrimenti ti arrabbi. Guardarti è il mio modo di amarti, regalandoti il mio tempo per scoprire che non è un regalo, ma uno scambio, perché quel tempo è di entrambi. Guardarti e prenderti sulle spalle, quando me lo chiedi, e intanto sussurrarti «a buon rendere» perché un giorno, appena avrò raggiunto l’età di Anchise, su quelle tue spallucce che si irrobustiscono a vista d’occhio non mi dispiacerebbe poterci fare un giro anch’io.
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